Wolff recuperò così, qua e là, i molteplici ma lacunosi frammenti dispersi di una leggenda ormai decisamente sulla via di un oblio senza ritorno. Purtroppo, nel suo comprensibile desiderio di ridar vita alla saga in forma completa, organica e dotata di dignità artistica, egli omise di trascrivere il materiale folkloristico esattamente come gli era stato raccontato (come fece invece De Rossi), prima di riorganizzarlo e restaurarlo secondo i suoi criteri. Il risultato è che oggi ci è molto difficile intuire, a volte, quali dettagli narrativi scaturiscano dalle sue personali interpretazioni o interpolazioni, e quali invece costituiscano parte integrante della leggenda in quanto patrimonio tradizionale dei Ladini.
Mito, storia e fantasia nelle leggende: il possibile innesco storico

E’ stato detto che una leggenda è solo “verità immaginaria”. In effetti, essa è il risultato della continua rielaborazione di un antico racconto che può aver preso spunto dalla pura fantasia, o da un mito, o da un groviglio inestricabile di mito, fantasia e realtà. Dunque non la si può leggere come se fosse il resoconto di un fatto di cronaca: occorre analizzarla con metodo e rigore, ancorandola agli ambienti culturali che essa ha traversato nel tempo.
Mentre infatti la trama della leggenda è di solito del tutto inaffidabile, lo scenario culturale, nella cui cornice essa si svolge, può spesso esser fatto emergere in modo sorprendentemente preciso. Concorrono a rendere possibile questo risultato i più disparati dettagli frequentemente disseminati dai primi narratori senza farci caso, in quanto parte integrante del loro mondo, e poi riportati per consuetudine, spesso senza comprenderne più il significato primitivo. Dalla correlazione di questi dettagli “di sfondo” con quanto scaturisce dalle moderne ricerche in campo storico, archeologico, climatologico ecc., si può giungere persino a proporre una datazione per l’eventuale innesco “storico” del racconto. La medesima tecnica consente anche di sfrondare dalla leggenda originale le sovrastrutture più tarde, incorporate in modo spurio nel corso dei secoli. Non occorre aggiungere che l’intera operazione deve essere condotta con estrema cautela e che i suoi risultati possono essere considerati in genere dei buoni indizi, ma quasi mai delle vere e proprie “prove”.
Cosa potrebbe essere stato il regno dei Fanes?

Sui brulli altipiani di Fanes (circa 150 km2 sopra i 2000 m) può mai essere esistito un regno? Se ci attendiamo uno stato moderno con città, castelli e campi coltivati, la risposta è ovviamente “no”. Nel passato, però, vi sono stati periodi climaticamente più favorevoli di oggi, ed il denudamento dell’altopiano sembra essere avvenuto abbastanza di recente. Le indagini paleoclimatologiche evidenziano tre periodi più favorevoli agli stanziamenti in quota:
• I tempi di Ötzi (~3500 AC);
• La fine dell’età del Bronzo (~1000 AC);
• L’età romana (~0 AC).
Nemmeno in questi periodi, a Fanes fu mai possibile praticare l’agricoltura, ma la pastorizia (capre e forse pecore) sì. Possiamo dunque immaginare gli antichi altipiani come una nicchia ecologica povera, ma in cui era possibile svernare assieme agli ovini. Con questo tipo di economia, a Fanes avrebbe potuto sostenersi una tribù di forse 5 o 600 persone, contro il centinaio o poco più di una tribù di puri cacciatori-raccoglitori.
Il regno dei Fanes – se fu – fu dunque “soltanto” una piccola tribù di pastori–guerrieri. Essi vissero – se vissero – in uno dei tre periodi di optimum climatico che ho menzionato prima. L’analisi della leggenda ci suggerisce che questo periodo – se fu - fu la fine dell’età del Bronzo.
Dettaglio della magica Alpe di Fanes piccola.
Totemismo e matriarcato

La prima parte della leggenda dei Fanes, assieme al “mito delle origini” noto come “La Croda Rossa”, attribuisce ai Fanes una struttura sociale già ben conosciuta dagli antropologi:
· Esiste un animale-simbolo di tipo totemistico, la marmotta, con cui i Fanes si identificano. Questa identificazione è probabilmente legata allo stile di vita dei Fanes; essi cioè, almeno inizialmente, sono dei cacciatori-raccoglitori che abitano nelle grotte dell’altopiano carsico di Sennes-Fosses e vi si nascondono – come fanno le marmotte – all’approssimarsi di un nemico;
· Il rapporto sacro con l’animale-simbolo (la “trasformazione” in marmotta, che deve essere posta in relazione con una trance sciamanica) è affidato alla regina;
· Il potere regale si trasmette perciò in linea femminile (matriarcato teocratico);
· Il re è uno straniero e viene ad abitare in casa della moglie (esogamia, matrilocalità);
· Le sue funzioni sono quelle di puro e semplice comandante dell’esercito.
· Col tempo, i Fanes diventano pastori, e poi guerrieri; le loro istituzioni rimangono quelle già note, anzi si precisa che la “alleanza” con le marmotte viene tenuta viva con lo “scambio dei gemelli”;
· Si tratta di un gemellaggio simbolico tra la prima figlia della regina ed una marmottina di pari età; la primogenita regale viene fatta vivere sottoterra, in una grotta, come se fosse una marmotta (ritualità assai simili, anche se a scopi diversi, sono presenti nel mito della Delibana ed in quello dell’Aurona);
· Il sacrificio della prima figlia della regina consente che la seconda (non necessariamente gemella in senso letterale) incarni la marmotta, e le conferisce dunque la sacralità indispensabile per regnare.
Una marmotta tra le pietraie di Fanes piccola
Il gemellaggio con la marmotta; analogie con Romolo e Remo
La mitologia che sta alla base delle istituzioni dei Fanes presenta delle significative analogie strutturali con quella legata alla fondazione di Roma. L’assenza di somiglianze formali garantisce che non si tratti di un riporto culturale di epoca tarda (imperiale). Infatti:
Romolo:
· E’ figlio di una vestale;
· E’ allattato da una lupa, come se fosse gemello di un lupo;
· Ha un fratello maggiore (Romulus = Romus il minore), che deve morire affinchè lui possa regnare;
Moltina / regina dei Fanes:
· E’ figlia (naturale; solo in epoca tarda convertita in adottiva) di un’anguana;
· Cresce con le marmotte, come se fosse gemella delle marmotte;
· Ha una sorella maggiore, che deve sparire sotto terra affinchè lei possa regnare.
Deve dunque essere esistito un ancestrale mito di fondazione, che fu l’antenato di entrambi.
L’introduzione del culto dell’avvoltoio; matriarcato e patriarcato
A questo punto, però, il re stringe una nuova alleanza sacra: con gli avvoltoi. Questa “alleanza” deve essere interpretata come l’affermarsi di un nuovo animale simbolico, molto più bellicoso del precedente. Se ne può dedurre che i Fanes non si riconoscano più nella pacifica marmotta: nel corso di numerose generazioni, si è compiuto il drastico rivolgimento sociale cui abbiamo già accennato. I Fanes sono diventati dapprima dei pastori, fatto che ha consentito loro di accrescersi e di espandersi notevolmente, ma più tardi anche dei guerrieri, o meglio dei veri e propri predoni.
E’ probabile che il nuovo totem, l’avvoltoio, da sempre legato al mondo dei morti (che giustifica la provenienza dei nuovi alleati da “un’isola nel mare lontano”, simboleggiante una lontananza senza ritorno) sia stato scelto in una prima fase come animale-simbolo di una “società di guerrieri” attiva all’interno della tribù. In battaglia i suoi membri si “trasformavano” in avvoltoi, come p.es. i berserker norvegesi che “diventavano” orsi o lupi. E’ anche plausibile che gli “uomini-avvoltoio” si fossero votati a combattere senza scudo (sempre sulla falsariga p.es. dei berserker ecc.), e dunque “come se avessero un braccio solo”.
Il re ora istituzionalizza questi cambiamenti, già ben radicati nella struttura sociale. L’avvoltoio prende ufficialmente il posto della marmotta. L’alleanza col nuovo totem è affidata ai figli maschi del re, e non più alle figlie femmine. La regina perde il suo primario ruolo sacrale. Stiamo assistendo alla transizione dal matriarcato al patriarcato.
Il mito iniziatico di Spina-de-Mul e l’archetipizzazione degli eroi

Quello descritto dalla leggenda è un ancestrale mito iniziatico: un ragazzo deve superare una prova di coraggio per accedere al mondo degli uomini. Lo stregone della tribù si maschera assumendo la terrificante immagine di un mulo mezzo putrefatto: Spina-de-Mul. Il ragazzo deve vincere le sue paure ed abbattere il mostro senz’armi.
Sono note rappresentazioni molto antiche di sciamani travestiti da animale. In effetti, si noti che lo stregone mascherato si trascina dietro i quarti posteriori posticci. Egli non fa alcun male al ragazzo e non se la prende con lui quando viene abbattuto, anzi gli assegna un nome da adulto (Ey-de-Net), proprio quello che lui cercava. Il tutto avviene nella notte più cupa, altrimenti il ragazzo si sarebbe accorto del trucco.
Ora, cosa c’entra tutto questo coi Fanes?
I popoli primitivi spesso non possiedono un senso “lineare” della storia, bensì la vedono come una sorta di spirale: eventi, cose e persone ricalcano sempre ciò che è avvenuto in passato, essi “sono” la ripresentazione vivente del passato. Gli eroi dei miti antichi sono gli archetipi che i loro corrispettivi moderni ricalcano necessariamente con la propria personalità ed il proprio comportamento. Se un eroe moderno compie qualcosa che non era compreso nel mito originario, le sue azioni vengono automaticamente incorporate nel mito stesso, che se ne arricchisce pur restando al tempo stesso unico ed ancestrale.
Nella leggenda dei Fanes, accade che uno stregone convinca un giovane guerriero a partecipare ad una battaglia. Il guerriero accetta al solo scopo di incontrare l’eroina nemica, Dolasilla, e patteggia con lo stregone che la ragazza sia lasciata a lui, illesa. Ma, alla prova dei fatti, lo stregone ferisce Dolasilla con una freccia. Il guerriero, dimentico della battaglia, se la prende con lui e lo scaraventa contro un albero, lasciandolo semivivo. Questo episodio, il guerriero che abbatte lo stregone senza usare le armi, dovette essere la molla che fece scattare l’archetipizzazione della coppia su quella dell’antico mito iniziatico: Ey-de-Net e Spina-de-Mul.
Il passo Tadega all’Alpe di Fanes Grande
La metallurgia antica e il significato dell’Aurona
In sé avulso dalla saga dei Fanes, il mito dell’Aurona viene tuttavia richiamato in tre punti diversi della leggenda. Esso racconta che i minatori dell’Aurona abbiano rinunciato a vedere la luce per ottenere in cambio sempre maggiori ricchezze. Ma un giorno un raggio di sole penetra sottoterra da un forellino; la principessa resta a piangerlo dietro le porte chiuse della miniera, finchè un re non le schiavarda e se la sposa; ma i minatori si disperdono, e della miniera abbandonata si perde a poco a poco ogni traccia.
Si tratta del contrappunto ad un altro mito minerario, quello della Delibana, dove una vergine deve essere rinchiusa nella montagna per garantire la fertilità della vena; potrebbe essere liberata, ma non lo è, e finchè essa vive la miniera prospera; qui invece la ragazza viene tratta in salvo, ma non appena ciò accade la miniera decade irrimediabilmente.
Anche la miniera dell’Aurona risulta dunque “archetipica”: non si tratta del ricordo di un episodio realmente accaduto, ma di un mito che descrive in forma velata un antichissimo rituale. Si osservi che dalla miniera non si estraevano certamente “oro e gemme”, bensì il più umile, ma preziosisssimo rame (dal tardo latino “Auramen”).
Gli antichi minatori, che sfruttavano anche vene che oggi verrebbero scartate per quantità e qualità, fondevano il minerale nella stessa località di estrazione, ricavandone dei pani o lingotti che venivano trasportati nei luoghi di utilizzo e lì rifusi, colandoli in adeguati stampi di pietra. Si diffusero così i cosiddetti “fonditori girovaghi”, un esempio dei quali è il personaggio del “Vögl delle Velme”, che viene caratterizzato come “principe dell’Aurona”, ossia esperto metallurgo, “che ha molto girato il mondo”, e che si è infine ritirato in pensione “disdegnando le ricchezze”, segno che gliene devono essere passate molte tra le mani!
La seconda parte della leggenda
Dopo la prima parte, che può essere definita “mitica” o “antropologica”, ne segue una seconda che ha un carattere principalmente narrativo. Essa descrive delle vicende che possono essere abbastanza facilmente razionalizzate, ricavandone un filo logico del tutto consequenziale, senza con ciò voler concludere che esse si siano necessariamente svolte “di fatto” in un lontano passato. La storia continua a riferire particolari “di ambientazione”, in particolar modo quelli relativi all’antica metallurgia, che contribuiscono a confermare la datazione del nocciolo della leggenda all’età del Bronzo finale. Ma vengono in luce anche alcune manchevolezze e contraddizioni interne alla trama, che ben difficilmente possono giustificarsi se si suppone che la leggenda sia stata creata di sana pianta dalla fantasia di uno o più “bardi”; mentre risultano ovvie se si ammette che ci si trovi di fronte ad una vicenda “storica” faticosamente ricostruita, perché imperfettamente conosciuta dai suoi stessi narratori.
Il lago d’argento e la “magia dei metalli”
Un giorno, il re dei Fanes guida una spedizione alla ricerca di un tesoro sul fondo di un lago. Il tesoro “proveniva dall’Aurona”: si trattava cioè di metallo. La leggenda lo definisce “argento”. Ma in tutta la leggenda il metallo, o è bianco, e viene definito “argento”, o è giallo-rossiccio, e viene definito “oro”. In realtà nel primo caso doveva trattarsi di bronzo, nel secondo di rame. Si noti, di più, che in tutta la leggenda la parola “d’argento” è usata in modo sinonimico non solo con “metallico”, ma anche con “magico”! Tutti gli oggetti “magici” sono metallici, e tutti gli oggetti metallici sono “magici”. Sembra che, in antico, la parola “magico” dovesse significare non “dotato di poteri soprannaturali”, bensì semplicemente “non esistente in natura”, “artificiale”.
Tornando al lago d’argento, va osservato che, nell’età del Bronzo, gettare armi in un lago sacro era una forma tipica di culto delle acque. Pertanto, alla fine del periodo il fondo dei laghi sacri poteva costituire una rara fonte di bronzo abbondante e gratuito. Ecco dunque cosa cercava il re dei Fanes: armi di bronzo per equipaggiare il suo esercito, che doveva esserne praticamente privo.
Il tesoro viene trovato però in una grotta, ed è di proprietà di alcuni “nani”: leggi “minatori-fonditori”. Esso consiste di “lingotti” (aes rude) e di una scatola, che viene descritta come qualcosa di diverso e di speciale. Si potrebbe azzardare che si tratti di piastrine di ferro, una delle prime comparse nella zona di tale metallo (importato). La corazza, che Dolasilla ne ricava, sarebbe stata dunque ottenuta cucendo le piastre su un corpetto di pelle (di bronzo sarebbe stata, o troppo pesante, o troppo facilmente perforabile). Si capirebbe bene così il significato del monito dei “nani”: se la corazza diventasse scura, ossia arrugginisse, perderebbe qualsiasi valore protettivo!
Si afferma poi che Dolasilla si faccia costruire un arco “d’argento”: ma questo era impossibile, per oggettive ragioni metallurgiche. La leggenda stessa afferma, però, che sono invece le frecce, e non l’arco, ad essere “magiche”: la punta metallica conferisce loro una grande forza di penetrazione.
La pretesa “infallibilità” delle frecce è invece legata alle loro aste. Alcune canne lacustri, colte nella stagione giusta (occorre che i Fanes tornino al lago quando il tesoro è “fiorito”, ossia quando sono pronti i giovani getti) sono molto più diritte di qualunque altro ramoscello vegetale, e seguono pertanto una traiettoria molto più precisa e prevedibile. “Infallibile” significava dunque in origine “che, se si mira bene, va sempre a bersaglio”, non “che va sempre a bersaglio, anche senza mirare”!
Il significato delle guerre dei Fanes: perché combatte Dolasilla?
Le guerre dei Fanes non sono guerre di conquista: essi rimangono arroccati sui loro altipiani dall’inizio alla fine. Si tratta dunque unicamente di scorrerie, alla ricerca di gloria e di bottino. Ci si può giustamente chiedere, invece, perché Dolasilla scelga di scendere in campo. Una ragione potrebbe essere che tutte le giovani donne dei Fanes lo facessero, come accadeva in molti popoli dell’Europa antica. Un’altra potrebbe consistere nel fatto che il re, decidendo di transitare ad una successione patrilineare, l’ha di fatto diseredata in favore del fratello (il principe-aquila). Dolasilla combatterebbe, dunque, per dimostrare al padre di essere in grado di guidare il suo popolo anche in battaglia, come e meglio del fratello. La leggenda afferma, in effetti, che la ragazza raggiunge il suo scopo: il padre infine la “incorona”, rinunciando implicitamente al suo progetto di patriarcato. I fautori del “partito dell’avvoltoio” non devono esserne rimasti felici: e ne vedremo le conseguenze.
Il re dei Fanes ed i segreti della Tsicuta

Sappiamo con certezza che il re dei Fanes non era un Fanes, perché la regina doveva sempre sposare uno straniero. Alcune righe, che paiono interpolate quasi a casaccio nella storia della Tsicuta, ci forniscono notizie molto più precise sulla sua identità e le sue vicende personali.
Si afferma infatti che la Tsicuta era stata fidanzata col re dei Fanes, ma il re dei Cajutes lo aveva istigato a lasciarla. Ciò può significare una cosa sola: la regina dei Fanes, a suo tempo, dovendosi cercare un marito all’esterno della tribù, con una mossa politicamente molto saggia ha chiesto di trovarle un marito al re del più potente popolo dei dintorni. Il re dei Cajutes ha quindi designato allo scopo un uomo, ovviamente rappresentativo e di sua piena fiducia, trascurando bellamente che fosse già sentimentalmente impegnato con un’altra donna. Quindi il re dei Fanes è di nascita un Cajute d’alto rango, forse addirittura uno stretto parente del re!
La “Dea di Montebelluna”: simile alla Tsicuta? (Museo Civico “L.Bailo” – Treviso)
Ey-de-Net e la faccenda dello scudo
La leggenda dichiara inoltre che Ey-de-Net, il prode guerriero Duranno, per entrare nel regno dei Fanes venga consigliato dalla Tsicuta di farsi costruire uno scudo così pesante che solo lui lo potesse portare. Nel contempo si sostiene che il re dei Fanes, per proteggere la figlia anche dalle frecce “magiche”, che la sua corazza, sia pur “magica”, non era in grado di arrestare, decida di farle costruire uno scudo molto pesante e “magico” anch’esso (Nota: sostituendo “magico” con “metallico” si ottiene che la corazza metallica di Dolasilla poteva fermare le frecce con la punta di legno o di pietra, ma non quelle con la punta di metallo: per far ciò ci voleva un pesantissimo scudo di bronzo).
Si afferma poi che entrambi gli scudi vengano separatamente commissionati ai “nani”, ma che questi ne costruiscano uno solo, sulle misure di Ey-de-Net, tuttavia lo consegnino al re dei Fanes!
Questo pasticcio si sbroglia facilmente solo se si ammette che Ey-de-Net ed il re dei Fanes si fossero messi preventivamente d’accordo su tutta la faccenda, per far sì che il guerriero potesse affiancare la principessa. In effetti il re non doveva star cercando per Dolasilla solo un portatore di scudo, ma anche e soprattutto un marito. La ragazza aveva ormai abbondantemente raggiunto l’età giusta, e doveva sposare uno straniero. L’erculeo Duranno deve essere sembrato al re un ottimo candidato, anche dal punto di vista della continuazione della sua politica. I Fanes, naturalmente, era previsto che restassero all’oscuro della combine.
Ma chi conosceva entrambi, il re ed Ey-de-Net, e poteva quindi combinare un incontro segreto tra i due? Soltanto la Tsicuta.
Se ne deduce che la Tsicuta deve essere rimasta l’amante del re anche dopo le nozze di questi. Si chiarisce così perché attorno alla donna sia stato abilmente costruito un alone di mistero, se non di terrore, e perché essa abiti così lontano da ogni convivenza civile. Si chiarisce nel contempo perché la versione fassana della leggenda, raccolta da De Rossi, citi come causa del “tradimento” del re, non la cupidigia di ricchezze, ma l’amore per una principessa Cajute!
Si osservi che dal personaggio della Tsicuta si sarebbe potuto facilmente trarre un grande episodio drammatico. Invece l’indizio viene completamente lasciato cadere. Il narratore annaspa tra cose che non sa e cose che era meglio sottacere. Questo racconto non è la creazione di un artista, è il faticoso tentativo di ricostruire un mosaico di cui restano ignote alcune tessere essenziali.
I nemici dei Fanes: i “popoli del sud”

La leggenda elenca una lunga serie di popoli quali avversari dei Fanes, ciascuno dei quali può essere messo in relazione alla valle di un affluente di destra del Piave. Si accenna infine a misteriose truppe provenienti “dalla
Sillivena e dalla lontana
Splanedis”. Wolff stesso chiarì cosa dovesse intendersi per “
Sillivena”: è l’Alpago, dove ai suoi tempi la memoria di questo nome era ancora viva, assieme a quella di uno strettissimo legame con l’antica città paleoveneta di Oderzo. Riesce pertanto facile spiegare la “
splanedis” come “
spianata”, ossia la pianura veneta, dove Oderzo è situata.
I Paleoveneti sembrano essere stati il prodotto della felice mescolanza tra il substrato locale ed un popolo che la tradizione vuole essere emigrato via mare dall’Asia Minore. E’ certo che, quando le prime tracce della civiltà paleoveneta cominciano a manifestarsi, non si rintracciano indizi di una rottura violenta col passato: segno che la loro espansione dovette assumere un carattere più culturale e politico che non di vera e propria conquista militare. E’ altrettanto certo che i Paleoveneti si rivolsero molto presto alle montagne, soprattutto alla ricerca di minerali (è possibile che i Venediger Mandeln delle leggende austriache adombrino in effetti dei cercatori stagionali paleoveneti). Le prime tombe delle necropoli di Mel e Belluno potrebbero risalire già al IX secolo A.C. E’ dunque realistico supporre che i vari popoli delle Dolomiti meridionali fossero entrati piuttosto presto sotto il protettorato dei Paleoveneti: ed è contro l’aggregazione politica controllata da questi ultimi che i Fanes finiscono per cozzare. Ancora una volta, si osservi che i narratori della leggenda dei Fanes parlano genericamente di “popoli del Sud”, senza comprendere il significato politico della coalizione avversaria, e senza nemmeno rendersi conto del (relativo) strapotere delle forze militari di quest’ultima.
Il conflitto fra il re dei Fanes ed il suo popolo

Ci si può facilmente render conto della scomoda situazione in cui deve essere venuto a trovarsi il re dei Fanes: Cajute di nascita, non può certo desiderare che i Fanes si rivolgano contro il suo antico popolo, e deve saper bene cosa essi rischino col provocare la reazione dei Paleoveneti. E’ presumibile (ricostruendo artificiosamente questa parte della leggenda, lo ammetto, sulla sola base degli antefatti e delle conseguenze) che gli “avvoltoi”, cui il re deve già apparire sospetto per il suo voltafaccia nella faccenda del matriarcato, si ritengano invincibili e non abbiano pertanto nessuna intenzione di abbandonare la remunerativa e gratificante abitudine di saccheggiare in allegria i villaggi dei loro vicini. Imporglielo significherebbe la guerra civile, se non il regicidio
tout court. In effetti il re, fin che può, cerca con ogni mezzo di stornare le razzie verso popoli più deboli e marginali dei Cajutes, come i Lastojeres. Si noti che alla prima coalizione anti-Fanes, quella raccolta dal Lastojer Spina-de-Mul, i Cajutes non partecipano affatto.
La miniera del tradimento, la morte del re e la fine del regno
Di quest’ultima parte della storia ci è rimasto solo un resoconto frammentario e partigiano, che cerca di scaricare tutte le colpe sul re allo scopo di mantenere immacolata l’immagine dei Fanes. Le righe che seguono sono un mio tentativo personale, basato sui labili frammenti che ci sono arrivati, di ricostruire una sequenza di eventi che “avrebbero ragionevolmente potuto innescare” la leggenda come noi la conosciamo.
Non abbiamo nessuna notizia sul perché i “popoli del sud” decidano d’un tratto di farla finita coi Fanes: ci sarà stata una scorreria di troppo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sappiamo soltanto che ci sono state delle trattative tra il re ed il nemico, e che si è parlato anche di una miniera.
E’ plausibile supporre che il re dei Fanes sia stato convocato da quello dei Cajutes per ricevere da questi un ultimatum. E’ plausibile inoltre che costui, che in ultima analisi è responsabile di averlo messo in quell’impiccio, gli abbia offerto una scappatoia in extremis.
I Fanes addebitano alla scarsità di risorse la necessità di saccheggiare i loro vicini per sopravvivere, e questo, in una certa misura, è vero. Il re dei Cajutes offre loro i diritti di sfruttamento di una ricca miniera (immediatamente archetipizzata sull’Aurona), purchè rinuncino alle loro importune razzie.
Ovviamente il re dei Fanes è ben contento di accettare queste condizioni; quando però le riferisce ai suoi, viene apertamente accusato di averli traditi. Nessuno dei Fanes può credere che gli eroi di cento battaglie non abbiano alcuna speranza di vittoria contro la nuova coalizione che si profila. Soprattutto, nessuno dei pastori-guerrieri è disposto a piegar la schiena nel duro lavoro di minatore.
Se il re ha accettato queste condizioni, ha tradito il suo popolo. Deve essere stata tirata in ballo anche l’amante Cajute. Il re è un bugiardo e un traditore: e deve morire.
Della sua fine non sapremo più nulla, salvo la posticcia favola medioevale che lo vuole trasformato in roccia sul passo del Falzarego (= falso re). Un altro grande momento drammatico che venne completamente sprecato, ulteriore indizio che originariamente la narrazione non fu il parto della fantasia di un artista, ma il tentativo di ricostruire alla men peggio degli eventi solo imperfettamente conosciuti.
La storia della battaglia sul Pralongià, della morte di Dolasilla e della fine del Regno è ben nota.
Cenno sulle “code” posticce
Termina qui la seconda parte della leggenda. Segue il preteso “risorgimento” dei Fanes. In parte esso è in realtà un miscuglio di episodi che dovrebbero essere spostati o subito dopo la battaglia del Pralongià, o addirittura prima di questa; in parte consiste invece di interpolazioni medioevali volte, o ad attenuare l’impatto emotivo della bruciante sconfitta, o a preparare il terreno per l’inserimento posticcio dell’eroe fassano Lidsanel. La cospicua parte dedicata a quest’ultimo è palesemente di origine puramente fassana e forse fu inserita nella saga solo dallo stesso Wolff. Di certo è databile a dopo il medioevo e vi si rintracciano, affastellati assieme, temi risalenti tanto all’occupazione romana quanto all’infiltrazione longobarda, che in origine non dovevano aver nulla a che vedere con la leggenda dei Fanes in quanto tale.
Conclusioni: il quadro culturale che emerge dalla leggenda; sua datazione
Numerosi elementi della leggenda concorrono dunque a datarla al Bronzo finale:
· la struttura antropologica della società Fanes;
· le condizioni di optimum climatico;
· lo stato della metallurgia;
· i culti (delle acque, del Sole ecc.);
· i miti (il parallelismo con Romolo e Remo);
· la coincidenza storica con l’espansione dei Paleoveneti.
I Fanes dunque, se vissero, vissero alla fine dell’età del Bronzo. Gli eventi descritti dalla leggenda si sarebbero svolti attorno all’800 A.C.: poco prima della fondazione di Roma, quando la nazione etrusca era ancora ai suoi inizi e le grandi invasioni celtiche dell’Italia settentrionale erano di là da venire.
Conclusioni: indizi che suffragherebbero l’esistenza di un nucleo “storico”

Nelle sue linee generali, il nocciolo della leggenda (una piccola tribù di pastori che si dà alle razzie e finisce col venire distrutta quando dà di cozzo in un popolo molto più potente) appare largamente plausibile e ben inquadrata nella sua epoca, ma più di così non è lecito spingersi ad affermare. Tuttavia:
· la presenza di dettagli antropologici tanto numerosi e coerenti lascia pensare che non possano essere stati semplicemente inventati;
· l’esistenza di un “mito delle origini” poteva essere significativa solo per un popolo effettivamente vissuto;
· in diverse occasioni i narratori annaspano, segno che non stanno dando libero sfogo alla loro fantasia creatrice, ma stanno tentando di ricostruire faticosamente degli eventi che erano loro imperfettamente noti;
· la leggenda è il racconto di una tragica sconfitta, non di una grande vittoria attribuibile a dei progenitori allo scopo di glorificarli.
L’ ipotesi che la leggenda dei Fanes sia un racconto di pura fantasia sembra pertanto meno probabile di quella che esso sia stato innescato da un nucleo di eventi storicamente accaduti.
Questa affermazione è tanto meno vera, quanto più si cerca di riferirla ai singoli dettagli della narrazione. Per esempio, nulla dimostra la veridicità del personaggio di Dolasilla, che potrebbe essere un personaggio in larga misura di fantasia, se non “importato” da altre leggende o narrazioni mitologiche.
Verosimilmente, la saga ci appare dunque essere la rielaborazione di una vicenda storica del Bronzo finale, commista tuttavia con miti preesistenti e non priva di componenti inventate.
Le vaste pietraie di Fanes.
Appendice: Bibliografia fondamentale
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Carandini A. (a cura di), 2006: La leggenda di Roma, vol. I. Mondadori, Milano
De Rossi, Hugo, 1984 (1912): Märchen und Sagen aus dem Fassatale (a cura di U.Kindl). Istitut Cultural Ladin “Majon di Fashegn”, Vigo di Fassa
Kindl U., 1983: Kritische Lektüre der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff. Vol.1, Istitut Cultural Ladin “Micurá de Rü”, San Martin de Tor
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Kindl U., 1997: Kritische Lektüre der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff. Vol.2, Istitut Cultural Ladin “Micurá de Rü”, San Martin de Tor
Morlang A.,1978: Fanes da Zacan. Istitut ladin “ Micurá de Rü”, San Martin de Tor
Palmieri G. e M., 1996: I regni perduti dei Monti pallidi. Cierre Edizioni, Verona
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Staudacher, K., 1994 (1937). Das Fanneslied. Ed. Tyrolia, Innsbruck
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